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OSPEDALI ANTICHI, una storia da riscrivere

Italia Nostra Roma
Da sempre Italia Nostra Roma conduce la battaglia per salvare dall’oblio gli antichi ospedali e riportarli a nuova vita. Ė nota la passione con cui il compianto presidente Carlo Ripa di Meana difese fino all’ultimo l’ospedale San Giacomo, chiuso il 31 ottobre 2008 e ancora in stato di abbandono. E la tenacia con cui la storica vicepresidente Mirella Belvisi si impegnò, per creare un gruppo di lavoro sul tema, con una particolare attenzione all’analoga vicenda dell’ospedale Forlanini, chiuso il 30 giugno 2015 e anche questo, purtroppo, lasciato in stato di abbandono. Ricordiamo Carlo con il suo impegno militante nella difesa del San Giacomo: petizioni, fiaccolate,  appelli e ricordiamo con uguale intensità il paziente e competente lavoro di Mirella per rafforzare il “Gruppo Ospedali”, la cui azione fu corroborata da una sentenza del Consiglio di Stato relativa alla battaglia legale sostenuta dagli eredi del cardinale Antonio Salviati, che donò il San Giacomo ai romani, con vincolo di rispettarne la vocazione di luogo di cura. I giudici hanno solennemente affermato: “non si può subordinare il diritto alla salute alle necessità dell’economia”. Legata a tale imprescindibile diritto, è l’importanza che rivestono tali pregiati complessi, di elevato valore storico-artistico ambientale, strategicamente collocati nel contesto urbanistico.

Una tendenza economica, prontamente recepita dalle istituzioni, ha instillato l’idea che gli antichi ospedali, in quanto obsoleti per la nuova medicina, dovessero essere depotenziati quando non chiusi del tutto. In tutta Italia, nell’ultimo decennio, più di 170 ospedali sono stati dismessi e, per almeno la metà di questi, non c’è nessuno progetto di riconversione. Destrutturare i piccoli centri ospedalieri, favorendo l’accorpamento dei servizi ha fatto sì che da Nord a Sud Italia si assistesse a fenomeni ingiustificabili sotto ogni punto di vista: l’oblio e lo snaturamento di un patrimonio di alto valore storico, artistico e ambientale. Contestualmente, non si sono fermati faraonici investimenti in edilizia sanitaria, con l’impiego di corposi finanziamenti e un ingiustificabile consumo di suolo.

Come non citare, quale esempio paradigmatico, l’abbandono del San Carlo Borromeo a Milano Nord e del San Paolo, al polo opposto della città, per dar vita a una nuova struttura nel parco sud di Milano, in area vincolata, al costo di 500 milioni di euro, il quadruplo dell’investimento previsto per la ristrutturazione del San Carlo, con 500 posti letto in meno in nome di una presunta “razionalizzazione”, andando a interessare una pregiata area di verde pubblico. Diversa sorte è stata riservata all’ex sanatorio di Sondalo intitolato a Eugenio Morelli, destinato in tempo di Covid a pazienti affetti dal morbo, “in ragione della sua lunga storia di ex sanatorio e della sua vocazione tisiologico-infettiva”, si legge nella delibera della Regione Lombardia. Possibilità che al Forlanini è stata negata, sebbene fosse nato anch’esso come sanatorio nel 1934. Di storie da narrare gli ex sanatori ne hanno molte.

A Sondalo, è nota la vicenda riferita alla salvezza di centinaia di opere d’arte dei musei milanesi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, che trovarono riparo nei padiglioni di quelle montagne, ritenute all’epoca “dispensatrici di benessere”, con l’acquiescenza del comandante della guarnigione tedesca di stanza nel villaggio, già professore di storia dell’arte italiana. Anche al Forlanini, in un impareggiabile – per bellezza e unicità – ambiente sotterraneo in cui è sgorgato un lago spontaneo, trovarono rifugio in tempo di guerra e di persecuzioni, cittadini ebrei e, come testimonianza ancora è presente nei pressi dello stupefacente e limpido laghetto, un manufatto adibito per l’occasione a servizio igienico. E come non provare un sussulto di tenerezza, rammentando la storia dell’ex dispensario antitubercolare di Piacenza in cui dal 1938 si svolse un’opera di prevenzione per i bambini. Durante la guerra divenne ospedale dei partigiani poi occupato dalle truppe nazi-fasciste. Fino agli anni Sessanta riprese le sue funzioni ma oggi versa nel più completo abbandono.

Tali vicende ci riportano a un altro tema legato agli ospedali storici: il loro legame con il contesto.

Comunemente, siamo soliti attribuire all’ospedale significanti legati alla mera attività che si svolge all’interno, ancorché rilevante. All’ospedale sono legati infiniti momenti dell’esistenza: nascite, malattie, morti, lavoro, legami, aspirazioni e molto, molto altro. Non sempre si analizza il rapporto che “l’edificio” ospedale ha con “l’intorno”, incontestabilmente significativo.
Per portare un esempio a noi noto, il Forlanini collega due ambiti importantissimi per il quadrante Ovest di Roma: i quartieri Monteverde e Portuense. Tenerlo chiuso, significa aver azzoppato tutta la vitalità dell’intorno, il commercio, la socialità, la manutenzione ordinaria. L’ospedale oggi offre di sé una immagine che rimanda agli anni Cinquanta, quando il complesso, circondato da una possente muraglia viveva un comprensibile isolamento, causato dallo stigma legato al “mal sottile”.  Poi il cambiamento, legato alla Riforma sanitaria che vide il Forlanini unito al vicino San Camillo, sotto la stessa amministrazione.

Due esempi significativi di architettura ospedaliera del Novecento a Roma: il Forlanini quale primo modello di monoblocco, a confronto con il San Camillo a padiglioni, destinato a inevitabile superamento. Di sanatorio riconvertito abbiamo un positivo esempio a Padova, con la struttura oggi divenuta efficiente “Istituto oncologico veneto” mentre a Savona il San Paolo, inaugurato nel 1857, che vantava il primato di unico ospedale pubblico della neonata Italia Unita, è stato trasformato in struttura residenziale, commerciale e del terziario, con un accordo tra pubblico e privato.

Analoga sorte per l’ospedale di Montepulciano, dalla cui struttura sono state ricavate civili abitazioni, uffici e negozi mentre all’ex sanatorio Banti in località Pratolino, uno dei più interessanti esempi di architettura ospedaliera del XX secolo in Toscana, è andata un po’ peggio, con un destino di abbandono e degrado, dopo vari tentativi di riconversione. Non sempre la riconversione degli ospedali si risolve in un cambio di vocazione a svantaggio della collettività.
 
A Cuneo, l’ex ospedale Santa Croce sta diventando biblioteca pubblica, da poco è stato aggiudicato il secondo lotto delle opere con bando di gara europeo e si sta organizzando il complesso trasloco di 300mila volumi. Ambiziosa operazione anche nel Lazio, a Viterbo, dove l’amministrazione guidata da Francesco Rocca, intende portare a compimento il progetto lanciato dall’ex presidente Nicola Zingaretti e poi congelato.
 
Con un investimento di 25 milioni di euro, l’antico Ospedale Grande degli Infermi dovrebbe diventare “Il borgo della cultura”, con la nuova sede dell’archivio di Stato e della biblioteca provinciale, cui si affiancheranno un piccolo teatro con spazio all’aperto, un ostello della gioventù e la “casa del pellegrino”, che accoglierà i camminatori della via Francigena che nella città dei papi ha una delle sue tappe.
Situazioni e scelte difformi: manca un’unica regia in grado di stabilire una programmazione degli interventi. Il gioco di veti incrociati tra forze politiche fa la sua parte nel dilazionare tempi e decisioni.

Un patrimonio di valore, quello costituito dagli antichi edifici ospedalieri, che rischia di perire per tale preoccupante scenario. Il 22 giugno 2017 le Regioni proposero all’allora ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, la costituzione di un fondo nazionale per valorizzare gli ospedali dismessi. L’idea, promossa dagli assessori regionali alla Sanità è rimasta anch’essa lettera morta. Nei fatti qualunque piano, scelta, opzione per riaprire gli ospedali, avrebbe il pregio di riavviare la discussione sul tema, potenzialità che le strutture dismesse avrebbero nel riformulare un nuovo modello di esistenza per gli appartenenti alla Terza e oggi, Quarta età.

Sarebbe auspicabile un nuovo piano di accoglienza con un respiro non solo locale. Architetture fatiscenti, fantastiche – il délabré ha il suo fascino – comunicano sensazioni inesprimibili. Potrebbero rigenerarsi, vivere una seconda vita, rendersi disponibili laddove oggi cerchiamo aiuto. Sappiamo che costruire ex novo può essere meno oneroso ma far rivivere strutture esistenti è esempio di competenza. Fa bene alla città, all’ambiente, alle persone. Così si sostiene una vera politica ambientale, restituendo all’architettura una seconda vita: un nuovo inizio di una Storia già vissuta.

Nei prossimi mesi, si attende con trepidazione di conoscere la sorte che sarà riservata all’ospedale Forlanini. Il nosocomio di Monteverde, in virtù di una “Dichiarazione d’intenti” siglata tra la Santa Sede e lo Stato italiano l’8 febbraio, dovrebbe diventare la nuova sede del Bambino Gesù, trasferito dall’attuale inadeguata ubicazione del Gianicolo. Un’operazione condivisibile sotto alcuni aspetti: si risana la struttura di Monteverde in stato di abbandono, si amplia l’assistenza per l’ospedale pediatrico vaticano, mantenendo l’antica vocazione sanitaria del nosocomio. Molte perplessità, al contrario, nascono per quanto attiene al vasto territorio, 14 ettari nel cuore di Monteverde, che diverrebbe extraterritoriale, privando i cittadini del maestoso parco, di un passaggio pedonale essenziale di collegamento tra la zona Gianicolense e il Portuense, auspicata ricucitura di due aree attualmente depresse. E non solo. Il lungo restauro dell’antico ospedale comporterebbe un cospicuo investimento. Si parla di 600 milioni di soldi pubblici, il costo di due nuovi ospedali “chiavi in mano”, mentre i cittadini da tempo attendono servizi sanitari inesistenti sul territorio, per i quali le risorse non sono mai state trovate. Una vera resa della sanità pubblica.


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